giovedì 9 maggio 2013


di GIANLUCA MARCHI
Milano, la Lombardia, la Padania sapranno un giorno scendere in piazza per protestare e dire no al cappio statale/romano che li stanno strangolando? Mi sono posto questa domanda, non così peregrina come potrebbe apparire in prima battuta, dopo aver presenziato a un convegno organizzato ieri a Milano dalMoviment nazional Domà Nunch e dall’associazione culturale Terra Insubre, rappresentate rispettivamente da Lorenzo Banfi e Andrea Mascetti. Tema dell’iniziativa i moti milanesi del maggio (6-9) 1898, soffocati nel sangue dal generale piemontese del Regno d’Italia, Fiorenzo Bava Beccaris. Relatori tre collaboratori de L’Indipendenza, Romano BracaliniPaolo L. Bernardini e Gilberto Oneto. Più che festeggiare il Primo maggio, che non sappiamo più cosa è diventato realmente se non un polpettone fra concerti e discorsi carichi di inutile prosopopea, noi lombardi, e nemmeno solo noi, dovremmo ricordare e celebrare quelle giornate dalla parte dei poveri cittadini inermi e disarmati, che furono bombardati e massacrati dal prode generale di Fossano, cosa che non fece invece Radetzky durante le Cinque Giornate di mezzo secolo prima, quando pure affrontò i milanesi armati.
I primi a scendere per strada furono il 6 maggio gli operai della Pirelli (allora erano 2700) che vollero così protestare contro le tasse applicate da Roma sul macinato, così pesanti da rendere impossibile l’acquisto del pane, persino quello fatto col granoturco. Così che, lavoratori fino a pochi giorni prima in grado di assicurare una vita dignitosa alle proprie famiglie, all’improvviso si ritrovarono nell’impossibilità di mangiare. Ne scaturì la decisione di scendere in piazza e il giorno seguente fu proclamato lo sciopero generale a cui si unirono i lavoratori di molte altre fabbriche e cittadini comuni fino a radunare, raccontano le cronache dell’epoca, circa diecimila manifestanti.
Dalla capitale impaurita per quanto stava succedendo sotto la Madonnina partì l’ordine, firmato presidente del Consiglio siciliano Antonio di Rudinì e avallato dal re Umberto I: bisogna dare una lezione a questa Milano troppo progredita, troppo laboriosa e troppo autonoma. Bisogna stroncare sul nascere l’idea di Filippo Turati di creare lo Stato di Milano. Fu mobilitato l’esercito con 40 mila soldati pronti a intervenire. Così il giorno 8 Bava Beccaris, che aveva sistemato il proprio quartier generale sul sagrato del Duomo, diede l’ordine di schierare l’artiglieria e di sparare con i cannoni contro qualsiasi barricata. I morti fra i dimostranti furono oltre cento (ma c’è chi sostiene furono oltre quattrocento), mentre l’esercito regio contò una sola vittima, un soldato fucilato perché si era rifiutato di sparare sulla folla.  La protesta pacifica fu dunque soffocata nel sangue e il re sabaudo riconobbe ufficialmente il servizio reso dall’infame Bava Beccaris a favore della “patria e della civiltà”. Due anni dopo a Umberto I toccò la sorte che meritava per mano dell’anarchico Bresci.
Non voglio farla lunga e addentrarmi in un articolo storico – non è il mio compito e c’è chi è più bravo e titolato di me per farlo -, ma intendo solo prendere spunto da questi eventi di 115 anni orsono per dire che, fatte tutte le debite proporzioni – la Lombardia e le altre regioni del Nord non si trovano oggi in condizioni molto diverse da quelle del 1898: uno Stato malefico, corrotto e insaziabile sta uccidendo con un carico fiscale senza precedenti i territori e le comunità più sane del Paese. Cosa dovrà succedere ancora prima che Milano, Venezia, Torino e via discorrendo scendano in piazza per dire basta? Figuri alla Umberto I e alla Bava Beccaris in giro non se ne vedono…

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